Il convivente di fatto entra nell’impresa familiare: la svolta delle Sezioni Unite

09/05/2025
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Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza n. 11661 del 4 maggio 2025

Con una pronuncia destinata a incidere profondamente sul sistema dei rapporti familiari e patrimoniali, la Corte di Cassazione – a Sezioni Unite – ha chiarito che il convivente di fatto che abbia prestato attività lavorativa continuativa e gratuita all’interno dell’impresa familiare ha diritto, al pari dei familiari legittimi, a partecipare agli utili, ai beni acquistati con essi e alla liquidazione della propria quota in caso di cessazione della collaborazione.

Il contesto normativo e la questione interpretativa

L’art. 230-bis c.c. disciplina la partecipazione all’impresa familiare, riconoscendo diritti patrimoniali a favore dei familiari che prestano in essa attività lavorativa in modo continuativo. Tuttavia, la norma, nella sua formulazione originaria, include solo il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, escludendo i conviventi di fatto.

In un contesto sociale profondamente cambiato, tale esclusione ha sollevato numerose perplessità, in particolare rispetto ai principi costituzionali di uguaglianza, tutela del lavoro e solidarietà familiare. Il problema giuridico, pertanto, ha assunto anche una valenza costituzionale.

Il caso concreto

La vicenda esaminata dalla Corte riguardava una donna che, pur priva di vincolo matrimoniale o parentale con il titolare dell’impresa, aveva convissuto stabilmente con lui per otto anni, lavorando quotidianamente nell’azienda agricola di famiglia. Dopo la morte del compagno, la donna aveva chiesto il riconoscimento della propria partecipazione all’impresa familiare e la conseguente liquidazione della quota maturata.

Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello di Ancona avevano rigettato la domanda, ritenendo l’interpretazione letterale dell’art. 230-bis c.c. vincolante e insuscettibile di estensione al di fuori dei legami formali previsti dalla norma.

L’intervento della Corte Costituzionale

La svolta è arrivata con la sentenza n. 148 del 2024 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 230-bis, terzo comma, c.c. nella parte in cui non includeva tra i soggetti legittimati il convivente di fatto che abbia prestato attività lavorativa continuativa e gratuita all’interno dell’impresa.

Secondo la Consulta, l’esclusione rappresentava una violazione dei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 2 (diritti inviolabili), 3 (principio di eguaglianza), 4 (diritto al lavoro), 35 e 36 (tutela del lavoro) della Costituzione, oltre che degli articoli 8 e 12 della CEDU. In sostanza, negare tutela al convivente basandosi esclusivamente sull’assenza di un vincolo formale significa ignorare il dato reale della convivenza e il contributo concreto apportato all’attività di impresa.

Il principio affermato dalle Sezioni Unite

Recependo pienamente la pronuncia della Corte Costituzionale, la Cassazione – con la sentenza n. 11661/2025 – ha affermato il principio secondo cui, ricorrendo i presupposti sostanziali richiesti dalla norma (convivenza stabile, attività prestata in modo continuativo e gratuito), anche il convivente di fatto ha diritto a essere considerato parte dell’impresa familiare.

In particolare, la Corte ha stabilito che:

“In tema di impresa familiare, è illegittima l’esclusione del convivente di fatto dalla qualifica di “familiare” ai sensi dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., ove risulti un apporto effettivo e continuativo del convivente all’impresa stessa.”

La sentenza ha annullato la decisione della Corte d’Appello che aveva escluso tale possibilità e ha rinviato la causa per un nuovo esame, alla luce del principio di diritto sopra esposto.

Profili applicativi e implicazioni concrete

Il riconoscimento della posizione del convivente nell’ambito dell’impresa familiare comporta, in concreto, il diritto:

  • alla partecipazione agli utili;
  • alla quota sui beni acquistati con tali utili;
  • alla partecipazione agli incrementi dell’azienda;
  • alla liquidazione della quota in caso di cessazione del rapporto.

Naturalmente, per accedere a tali diritti sarà necessario dimostrare, caso per caso, che la collaborazione è avvenuta in modo effettivo, stabile e gratuito, nell’ambito di una convivenza di fatto. La prova di questi elementi potrà essere fornita attraverso documentazione, testimonianze e ogni altro mezzo idoneo a dimostrare la natura non occasionale, né meramente affettiva dell’apporto lavorativo.

In assenza di contratti o accordi formali, sarà il giudice a dover valutare la concretezza del contributo offerto e la sua rilevanza rispetto all’attività economica dell’impresa. Questo implica la necessità di un’attenta ricostruzione del rapporto di fatto, con l’obiettivo di accertare se il convivente abbia effettivamente partecipato, nei termini previsti dall’art. 230-bis c.c., alla vita dell’impresa familiare.

Per imprese e operatori giuridici, si tratta di una novità che richiederà maggiore consapevolezza nella gestione delle relazioni affettive e lavorative che si intrecciano nella sfera privata.

Considerazioni finali

La decisione delle Sezioni Unite non solo colma un vuoto normativo, ma apre la strada a una maggiore attenzione verso la realtà delle convivenze e dei ruoli, spesso centrali, che i conviventi svolgono nel contesto economico e familiare.

Questa pronuncia, infatti, oltre a rappresentare un adeguamento del diritto positivo all’evoluzione della realtà sociale, costituisce una significativa estensione della tutela giuridica in favore delle unioni di fatto, riconoscendo valore giuridico al contributo effettivo reso dal convivente nell’ambito dell’impresa. Per avvocati, operatori giuridici e imprese familiari, si tratta di una sentenza destinata a incidere in modo rilevante sulla gestione dei rapporti lavorativi e patrimoniali tra conviventi, suggerendo prudenza nella regolazione degli assetti interni e attenzione nella formalizzazione delle collaborazioni.

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