Il convivente di fatto entra nell’impresa familiare: la svolta delle Sezioni Unite
Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza n. 11661 del 4
maggio 2025
Con una pronuncia destinata a incidere profondamente sul
sistema dei rapporti familiari e patrimoniali, la Corte di
Cassazione – a Sezioni Unite – ha chiarito che il convivente
di fatto che abbia prestato attività lavorativa continuativa
e gratuita all’interno dell’impresa familiare ha diritto, al
pari dei familiari legittimi, a partecipare agli utili, ai
beni acquistati con essi e alla liquidazione della propria
quota in caso di cessazione della collaborazione.
Il contesto normativo e la questione
interpretativa
L’art. 230-bis c.c. disciplina la partecipazione
all’impresa familiare, riconoscendo diritti patrimoniali a
favore dei familiari che prestano in essa attività
lavorativa in modo continuativo. Tuttavia, la norma, nella
sua formulazione originaria, include solo il coniuge, i
parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo,
escludendo i conviventi di fatto.
In un contesto sociale profondamente cambiato, tale
esclusione ha sollevato numerose perplessità, in particolare
rispetto ai principi costituzionali di uguaglianza, tutela
del lavoro e solidarietà familiare. Il problema giuridico,
pertanto, ha assunto anche una valenza costituzionale.
Il caso concreto
La vicenda esaminata dalla Corte riguardava una donna che,
pur priva di vincolo matrimoniale o parentale con il
titolare dell’impresa, aveva convissuto stabilmente con lui
per otto anni, lavorando quotidianamente nell’azienda
agricola di famiglia. Dopo la morte del compagno, la donna
aveva chiesto il riconoscimento della propria partecipazione
all’impresa familiare e la conseguente liquidazione della
quota maturata.
Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello di Ancona
avevano rigettato la domanda, ritenendo l’interpretazione
letterale dell’art. 230-bis c.c. vincolante e
insuscettibile di estensione al di fuori dei legami formali
previsti dalla norma.
L’intervento della Corte Costituzionale
La svolta è arrivata con la sentenza n. 148 del 2024 della
Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità
parziale dell’art. 230-bis, terzo comma, c.c. nella
parte in cui non includeva tra i soggetti legittimati il
convivente di fatto che abbia prestato attività lavorativa
continuativa e gratuita all’interno dell’impresa.
Secondo la Consulta, l’esclusione rappresentava una
violazione dei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 2
(diritti inviolabili), 3 (principio di eguaglianza), 4
(diritto al lavoro), 35 e 36 (tutela del lavoro) della
Costituzione, oltre che degli articoli 8 e 12 della CEDU. In
sostanza, negare tutela al convivente basandosi
esclusivamente sull’assenza di un vincolo formale significa
ignorare il dato reale della convivenza e il contributo
concreto apportato all’attività di impresa.
Il principio affermato dalle Sezioni Unite
Recependo pienamente la pronuncia della Corte
Costituzionale, la Cassazione – con la sentenza n.
11661/2025 – ha affermato il principio secondo cui,
ricorrendo i presupposti sostanziali richiesti dalla norma
(convivenza stabile, attività prestata in modo continuativo
e gratuito), anche il convivente di fatto ha diritto a
essere considerato parte dell’impresa familiare.
In particolare, la Corte ha stabilito che:
“In tema di impresa familiare, è illegittima l’esclusione
del convivente di fatto dalla qualifica di “familiare” ai
sensi dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., ove risulti un
apporto effettivo e continuativo del convivente
all’impresa stessa.”
La sentenza ha annullato la decisione della Corte d’Appello
che aveva escluso tale possibilità e ha rinviato la causa
per un nuovo esame, alla luce del principio di diritto sopra
esposto.
Profili applicativi e implicazioni concrete
Il riconoscimento della posizione del convivente nell’ambito
dell’impresa familiare comporta, in concreto, il diritto:
- alla partecipazione agli utili;
- alla quota sui beni acquistati con tali utili;
- alla partecipazione agli incrementi dell’azienda;
- alla liquidazione della quota in caso di cessazione del rapporto.
Naturalmente, per accedere a tali diritti sarà necessario
dimostrare, caso per caso, che la collaborazione è avvenuta
in modo effettivo, stabile e gratuito, nell’ambito di una
convivenza di fatto. La prova di questi elementi potrà
essere fornita attraverso documentazione, testimonianze e
ogni altro mezzo idoneo a dimostrare la natura non
occasionale, né meramente affettiva dell’apporto lavorativo.
In assenza di contratti o accordi formali, sarà il giudice a
dover valutare la concretezza del contributo offerto e la
sua rilevanza rispetto all’attività economica dell’impresa.
Questo implica la necessità di un’attenta ricostruzione del
rapporto di fatto, con l’obiettivo di accertare se il
convivente abbia effettivamente partecipato, nei termini
previsti dall’art. 230-bis c.c., alla vita dell’impresa
familiare.
Per imprese e operatori giuridici, si tratta di una novità
che richiederà maggiore consapevolezza nella gestione delle
relazioni affettive e lavorative che si intrecciano nella
sfera privata.
Considerazioni finali
La decisione delle Sezioni Unite non solo colma un vuoto
normativo, ma apre la strada a una maggiore attenzione verso
la realtà delle convivenze e dei ruoli, spesso centrali, che
i conviventi svolgono nel contesto economico e familiare.
Questa pronuncia, infatti, oltre a rappresentare un
adeguamento del diritto positivo all’evoluzione della realtà
sociale, costituisce una significativa estensione della
tutela giuridica in favore delle unioni di fatto,
riconoscendo valore giuridico al contributo effettivo reso
dal convivente nell’ambito dell’impresa. Per avvocati,
operatori giuridici e imprese familiari, si tratta di una
sentenza destinata a incidere in modo rilevante sulla
gestione dei rapporti lavorativi e patrimoniali tra
conviventi, suggerendo prudenza nella regolazione degli
assetti interni e attenzione nella formalizzazione delle
collaborazioni.